Gilles Villeneuve è un bambino, da sempre e per sempre. Ha messo davanti i sogni, con un’ostinazione fanciulla, ha sbaragliato incubi, grazie a una follia istintiva. La sua è una storia iniziata tra la neve e il ghiaccio, maturata tra l’asfalto e le pieghe. Un bianco e nero che ha dato origine al colore: rosso, come quell’amore che grida per sempre.
C’è un giovane canadese, una sorta di matto, che corre sulle motoslitte, nel perlaceo infinito del Québec. Laggiù, dove il candore domina, la passione non ha regole. Esplode semplicemente a suon di motore: troppo lunghi i mesi gelidi, troppo carica l’impazienza da domare. C’è chi ama la quiete dei paesaggi nivei, chi dedica al riposo quei lunghi mesi da letargo. Non Gilles di certo. Lui è un figlio dell’inverno e lo rende vivo con l’unico mezzo che ha a disposizione.
Correre per placare una sete, spruzzi di neve, cristalli divelti da traiettorie impossibili. Schizzi di gloria conquistati tra i solchi dell’anima, alla ricerca di un oltre che sa di infinito. Perché quella distesa di nulla non gli basta e non gli può bastare. Ne è consapevole Joann, prima amorevole fidanzata, subito moglie devota, poi madre. Di Gilles e dei suoi figli. Lo segue sempre, in un caravan come nido d’amore improvvisato, in un motorhome come dimora fissa per l’esistenza.
Gilles divampa in un anno che brucia, in quel 1976 e nel suo fumo acre di sfida. Mentre Lauda lotta, contro la McLaren di Hunt e contro la morte, James lo scopre e lo rivela al mondo. Gare d’oltreoceano, scorribande tra i piloti che contano e scelgono di divertirsi a oltranza, mettendosi alla prova in altri continenti e in altre discipline. Trois Rivières il nome del circuito sul quale Gilles sbaraglia la concorrenza e si fa notare da chi ha in comune con lui il germe della follia.
Hunt riconosce a pelle quell’unicità che allontana ogni tipo di perfezione. Pura foga basata sull’improvvisazione e sul sentire. Qualcosa che entra nelle viscere, anche e soprattutto perché questo ragazzo non ha una storia canonica nel mondo delle corse. A James quelle motoslitte ricordano la Mini sgangherata con cui ha gridato al mondo che voleva fare il pilota. E quel talento grezzo gli sussurra una richiesta d’attenzione. Così l’aitante gigante biondo e il minuto folletto bruno diventano complici. Di speranze e di emozioni.
Per James arriverà il successo nel sensazionale, combattuto e dannato 1976. Per Gilles l’opportunità, dapprima targata McLaren, in quel di Silverstone ’77. Poi la chiamata di Enzo, il controverso esordio Ferrari. L’eredità di Lauda il ragioniere, che Gilles raccoglie trasformandola in voli. L’asfalto come rampa di lancio verso l’estremo, per affermarsi, per distanziarsi. Purtroppo anche per prendere il primo contatto con la tragedia, in quel Gran Premio del Giappone che pare un oscuro presagio del poi, di quella carambola che descrive parabole di morte.
Enzo sospetta, aspetta. Che fosse forse troppo presto per gettarlo nella mischia, che il domani avrebbe reso ragione a questo ragazzino mai cresciuto, forsennato, diabolicamente angelico. Lo guarda e lo scruta, non lo abbandona, ritrova in lui un figlio e quella tenerezza istintiva che non avrebbe mai pensato di provare ancora. Dolci gli occhi di Gilles, con quel velo di malinconia che arrivava chissà da dove. Era facile pensare: “io gli volevo bene“.
Allo stesso tempo era difficile pensare quanto quel bambino di ormai trent’anni fosse fragile. Un guerriero d’argilla pronto a sgretolarsi nell’attimo buio della propria esistenza. Eppure lui, Enzo, sentiva che quella meravigliosa 126 C2 avrebbe consegnato il paradiso al suo aviatore. Dopo la fedeltà dimostrata nei confronti di Jody, dopo due anni di orribile attesa, sarebbe arrivato il suo momento.
La foglia d’acero sulla bandiera avrebbe conosciuto il trionfo, e la Ferrari l’olimpo, grazie a una coppia d’assi formata con il compagno e amico Pironi. Troppo belli gli sguardi scanzonati e i sorrisi condivisi, tra il gioviale francese e il piccolo canadese. Un’intesa perfetta, o almeno sembrava. Invece Gilles tremava, perso nell’inquietudine di una crisi con Joann, il suo punto fermo. Preso nella disfida fratricida con Didier, ormai il suo bersaglio mobile.
Imola teatro per una recita a soggetto, mai provata, mai concordata con lo sceneggiatore. Piloti come marionette senza più fili a giocarsi la scena, ingannati da un un regista votato all’anarchia. Lo sgambetto di Didier, considerato un piccolo capriccio. La disperazione di Gilles, che lo valuta un abnorme tradimento. Sono lì sul podio entrambi, a posizioni invertite, senza più gioia, in un imbarazzante sipario che rimane aperto. Si chiuderà definitivamente a distanza di nemmeno due settimane.
Zolder, 8 maggio, giorno di qualifiche. Il circuito si snoda in un bosco dai nomi che evocano elfi e fate. Ma per Gilles c’è solo l’eco di un affronto da vendicare come una vendetta, nella rincorsa affannata di una sfida senza senso. Terlamenbocht, un camposanto tra alberi e cielo, definito da un’onda d’asfalto troppo esile per contenere la foga di una rivalsa. Il piccolo fauno inferocito, alla guida della fulminea Ferrari, urta la lentissima March di Jochen Mass.
Un contatto tra titani, definito dalle gomme, orchestrato dal destino per originare un’ascesa fatale. La monoposto diviene un elicottero senza pale, una carcassa senza volontà, sospinta da forze cinetiche trasformatesi in ciniche. Un turbinio da tornado, tra la pioggia copiosa di resti meccanici e la forza brutale di quell’ascensione violenta. Gilles ormai un pupazzo in balia degli eventi, nel suo devastante, folle volo.
Il pilota fanciullo, poeta del volante, lascia l’ultima parola a un volteggio, a un fragore d’ali. Pronto a raggiungere l’infinito a bordo di quella macchina rossa che l’ha consacrato. Ma non chiamatelo mito: Gilles è solamente un uomo che ci ha insegnato a volare.